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Visualizzazione dei post da 2013

Sì, la morte è davvero intramontabile (una replica ad Alessandro Pertosa)

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Bell'articolo complimenti! LA MORTE INTRAMONTABILE di Alessandro Pertosa Hai messo in luce alcuni aspetti del modo contemporaneo di sentire la morte davvero interessanti. Mi è molto piaciuta la tua analisi dei modi in cui la morte viene nominata anzi non-nominata. Il pudore di cui parli, tra l'altro, non è rivolto solo alla morte. La nostra lingua ama girare intorno ai concetti per abbellirli e addolcirli, penso ad esempio al modo in cui viene nominatata la donna gravida, detta "in dolce attesa", oppure l'handicappato che è il "diversamente abile" e via discorrendo. Certo la morte, come tu ben rilevi, ha un surplus di "innominabilità" in quanto "inaccettabile" per eccellenza. La tua intenzione, se non sbaglio, è qui di "storicizzare" il fenomeno "morte" individuando la sua emarginazione dal vissuto quotidiano come una tendenza moderna tipica dell'uomo positivista fedele alla scienza. Io però, rispetto a

La solitudine

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" Degli uomini, -disse il Piccolo Principe- coltivano cinquemila rose nello stesso giardino... e non trovano quello che cercano... E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua... Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore" . Il Piccolo Principe, Saint-Exupéry, 1943. Dedicato a L. A. A questo punto non posso non cercare di analizzare la solitudine poiché questo "atteggiamento esistenziale" (chiamiamolo così) ha molto a che fare con la morte e con la paura della morte. Questo blog, infatti, è un mio percorso interiore alla ricerca della radice emotiva e razionale della paura delle paure, quella della morte. Se l'intuito mi dice che questa paura è irrazionale e immotivata, resta comunque ineludibile e può essere un potente freno e condizionamento della libertà intellettuale e spirituale di ognuno di noi. La solitudine ha a che fare con la morte perché entrambi questi sentimenti sono sostenuti dall'idea

"Non possiamo pretendere di risolvere i problemi pensando allo stesso modo di quando li abbiamo creati" A. E.

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UNA QUESTIONE DI METODO E NON SOLO Questa frase di Albert Einstein mi ha molto colpita. Analizzandola mi rendo conto che presuppone almeno un paio di concetti: in primo luogo che ognuno di noi crea i suoi problemi. Questo è interessante perché esclude il fatto che i problemi siano realtà oggettive, che siano reali in modo universale. I problemi, piuttosto, sono delle realtà soggettive, poiché frutto di un vero e proprio processo di creazione e costruzione degli stessi. Anche quei problemi di ampio raggio, che quindi sembrerebbero coinvolgere tutti sono dei punti di vista, ovvero dei "tagli" che diamo al reale attraverso una chiave interpretativa scelta deliberartamente e condivisa in modo più o meno consapevole. Premesso dunque che i problemi siano frutto di una creazione intellettuale degli stessi, non è possibile risolverli pensando così come li si è concepiti. Che vuol dire? Vuol dire che se interessa davvero risolvere le situazioni problematiche bisogna uscire dalla

Il senso di colpa

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La colpa è proprio l'unico fardello che gli esseri umani non possono sopportare da soli. Anaïs Nin, Una spia nella casa dell'amore, 1954 Se il vittimismo è una modalità efficacissima per introdursi allo stato di morte vivente, ovvero in quell'orizzonte di frustrazioni e di conflitti interiori che portano ad eclissare la propria vita a favore di un tendere infinito verso la morte la sua origine profonda è il senso di colpa. Quando si parla di colpa è necessario distinguere tra colpa, peccato e senso di colpa. LA COLPA Il concetto di colpa rientra nell'orizzonte del rapporto tra l'io e la propria coscienza: se si agisce bene l'io è in pace con se stesso mentre se si agisce male la coscienza (che è una modalità riflessiva della percezione di sé) attiva la colpevolizzazione dell'io. Esistono infatti delle leggi implicite deposte nella coscienza personale e collettiva: la colpa è il contraccolpo morale della loro violazione. IL PECCATO Il peccato, le

«Alla fine è sempre colpa mia»: il vittimismo

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1) "Non ce la faccio, non ce la posso fare, non ci riuscirò mai" Tra i tanti modi attraverso i quali si tende verso la morte come fine il vittimismo è di certo una degli atteggiamenti più comuni e più interessanti da osservare e analizzare. Il vittimismo, infatti, è una forma molto celata e subdola di distruttività e di autodistruttività. La sua origine sta nella sensazione di debolezza e d'insicurezza, poiché nasce dalla percezionde della propria incapacità e inadeguatezza di fronte ai più comuni obiettivi della vita umana. Nella prima infanzia si mette in mostra la propria naturale fragilità per ottenere considerazione e affetto. Il vittimismo protrae quest'atteggiamento fino all'età adulta. 2) La costruzione del nemico Il vittimismo si attiva quando l'io non cosciente sente franare la sua identità al punto da aver bisogno di individuare -o addirittura costruire- fuori di sé un'entità su cui proiettare frustrazioni e ansie proprie. C'è infatt

Perfezionismo e immortalità

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Nei precedenti post ho affrontato il tema della morte per chiarire perché il pensiero della morte è così profondamente angosciante per molti esseri umani. Ho detto che, se la morte rappresenta la fine di tutto, un sottofondo di frustrazione mortifera accompagna i nostri progetti, le nostre attività, i nostri desideri che tendono invece a rinnovarsi e aggiornarsi quotidianamente con una certa continuità. L'idea che possano finire nella morte crea disagio e sofferenza. Ho detto anche dell'idealismo ottuso, del fatto cioè di porsi obiettivi utopici e irragiungibili quasi solo per il gusto perverso di disattenderli. Questo meccanismo è alla base di ogni mania di perfezione. L’etimologia del termine “perfezione” risale al latino perficio che significa letteralmente “finire”, mentre perfectio vuol dire “compiuto”, portato a termine. L'origine di questo termine mi riporta inaspettatamente al concetto di fine e di termine. Potrei parafrasare l'etimologia, quindi, dicendo

"Moi, j'obeserve"

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Che cos'è la filosofia? Forse l'ho capito un pò meglio quella volta che, durante una lezione un filosofo rispose ad uno studente di un corso di dottorato che gli faceva notare come le conclusioni speculative del suo ultimo libro erano "scandalose". Lui gli obiettò, alzando le spalle e allargando le braccia: Moi, j'obeserve! Gli stava dicendo che, se esistono delle implicazioni "scandalose" nelle sue speculazioni, queste non erano attribuibili al suo gusto personale ma piuttosto alla realtà dei fatti (per la cronaca se il professore era francese lo studente, come me, era italiano). Non sono certa che quell'osservazione fosse del tutto sincera, so però che con quella frase chiarì il suo ruolo e il suo intento e con esso, quello della filosofia stessa. La filosofia è osservazione dei fenomeni. Quella di stampo antropologico si rivolge ai fenomeni più prettamente "umani", li analizza e li descrive. Un certo stile accademico a cui ero abit

La vita è un dono!

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Il 12 e 13 giugno 2005 si tennero in Italia i referendum abrogativi sulla legge n. 40 sulle norme in materia di procreazione medicalmente assistita (che, per la cronaca, non raggiunsero il quorum). La questione all'epoca m'infervorava parecchio. Il motivo principale è probabilmente che in quell'anno mi trovavo a Parigi, dove frequentavo ambienti cattolici cristiani come l'Institute Catholique. Era molto interessante per me notare come fosse diverso il coinvolgimento dei credenti francesi rispetto a quelli italiani sulle questioni di etica pubblica. Il credente francese che frequentava la chiesa e i gruppi religiosi mi sembrava, un pò ai margini della società, intento a conquistare un posto nel mondo laico in cui viveva. Chi si accostava allo studio della filosofia cristiana ad esempio, aveva l'aria di essere principalmente attento a mettere in chiaro quel fondo di verità che riguardava le sue origini culturali sommerse dalla laicité alla francese. Era forse la d

Preoccupazione e meraviglia

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Questo privilegio della previdenza l'uomo deve scontarlo con la tortura senza tregua della preoccupazione, che parimenti nessun animale conosce: essa è l'avvoltoio che rode il fegato dell'incatenato Prometeo. Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 1851 Credo che ogni ansia esistenziale possa essere ricondotta all'idea della morte, che è per eccellenza la questione che preoccupa l'umanità. L'etimologia della parola "preoccupare" mi avvicina particolarmente all'idea di morte come ansia esistenziale del vivere, poiché aggiunge al verbo occupare (inteso come occuparsi di ) il prefisso temporale "pre"; preoccuparsi, infatti, è occuparsi in anticipo, prima che ci siano le condizioni per potersi realmente occupare . La preoccupazione, dunque, è la proiezione sul futuro delle nostre ansie, completa dell'interesse che paghiamo su di esse prima ancora che le uova nel paniere siano rotte, prima cioè che i nostri guai siano effet

Si sceglie di che morte morire

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Dopo una lunga interruzione rieccomi a scrivere qui, per riallacciare il filo dei pensieri attraverso la scrittura, pensieri che, in questo spazio di tempo ho sempre più maturato nel tentativo di "guardare in faccia" alla morte. Nel frattempo quella morte immaginata che era stata l'origine di questa serie di riflessioni è avvenuta. Il dolore fisico e la lotta contro di esso sono cessati. E' sopraggiunta una strana forma di pace. Ora, per suoi congiunti è il tempo della nostalgia, della mancanza, dei ricordi e della solitudine. Ero giunta alla conclusione che la morte non è la fine di tutto, ma piuttosto l'inizio, in quanto il modo in cui ognuno di noi pensa la sua morte è un'importante chiave di lettura con cui affronta quotidianamente le sue esperienze di vita. L'impressione, infatti, è che la morte miete delle vittime sempre e in ogni caso se ci si dispone ad essa con vittimismo, ovvero con un atteggiamento "mortifero". Noi scegliamo di che

Un bilancio e il fallimento della ragione (ovvero sull'ansia esistenziale e sull'idealismo ottuso)

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In questo periodo della mia vita sto vivendo il fallimento della ragione. Mi spiego. Ho studiato filosofia. Un corso di laurea prima, di dottorato poi che ho allunganto all'inverosimile per passare più tempo possibile con quei libri che leggevo e rileggevo molte volte per convincermi che la ragione, quella di stampo occidentale e di stile filosofico potesse salvarmi dalle mie ansie, dalla paura di perdere il controllo sulla vita e sugli eventi. La concatenazione degli eventi di una vita doveva essere sottoposta ad una logica ed io mi ero prefissa la missione di metterla in chiaro, di svelarla e, in questo modo, di farla in barba a tutte le ansie esistenziali. Per me la filosofia era come dello junk food, ne facevo delle grandi indigestioni per dovermi poi disintossicare con lunghi periodi di digiuno, in cui recuperavo le energie per ricominciare la mia ricerca. Più leggevo, più studiavo e più i miei dubbi crescevano; più coltivavo i miei dubbi più mi convincevo di dover continu