Sì, la morte è davvero intramontabile (una replica ad Alessandro Pertosa)

Bell'articolo complimenti!

LA MORTE INTRAMONTABILE di Alessandro Pertosa

Hai messo in luce alcuni aspetti del modo contemporaneo di sentire la morte davvero interessanti. Mi è molto piaciuta la tua analisi dei modi in cui la morte viene nominata anzi non-nominata. Il pudore di cui parli, tra l'altro, non è rivolto solo alla morte. La nostra lingua ama girare intorno ai concetti per abbellirli e addolcirli, penso ad esempio al modo in cui viene nominatata la donna gravida, detta "in dolce attesa", oppure l'handicappato che è il "diversamente abile" e via discorrendo. Certo la morte, come tu ben rilevi, ha un surplus di "innominabilità" in quanto "inaccettabile" per eccellenza.
La tua intenzione, se non sbaglio, è qui di "storicizzare" il fenomeno "morte" individuando la sua emarginazione dal vissuto quotidiano come una tendenza moderna tipica dell'uomo positivista fedele alla scienza. Io però, rispetto alla morte, vedo molto più sfumata di te la contrapposizione tra l'uomo moderno fedele alla tecnica e l'uomo antico fedele ad ideali religiosi. Se il primo la rifiuta come scandalosa (anzi "oscena", bellissima espressione) l'altro la rifiuta ugualmente negandola nella vita eterna promessa dalla sua fede religiosa. Io noto che, in entrambi i casi, è posto un fervente "no" alla morte: la morte è cioè negata come fine della vita nel primo caso perché obliata, celata, nascosta alla coscienza (in quanto, come dici tu, sancisce il fallimento della tecnica) nel secondo caso in quanto è annullata, azzerata attraverso la fede, nella credenza della vita eterna. Questo mi porta a concludere che il concetto di morte come fine della vita propria non è compatibile al ragionamento umano in quanto estraneo all'uomo vivente.
Il concetto di morte, infatti, non investe l'idea della morte "propria" ma si tratta perlopiù di un'astrazione: quando si dice "morte" si intende la morte altrui, quella che si vede arrivare davanti agli occhi, che si soffre in quanto si vede compiuta sul letto di morte, la morte dell'altro immaginata su se stesso quando si sta male e si teme la morte propria. La morte, in definitiva è solo "paura" della morte, è cioè solo e sempre vita come relazione vivente della propria vitalità, messa alla prova dalla paura della morte. Da vivente nessuno esperisce la sua morte mentre invece può comportarsi da morto vivente, proiettando la morte altrui su se stesso e vivendo quest'evento come fine drammatica della vita nella stessa vita. Ma la morte propria è solo immaginazione, poiché nessuno esperisce la propria morte davvero.
Eppure, questa proiezione della morte altrui nella propria vita, vissuta nel dolore, nelle disgrazie, nelle tragedie quotidiane ha un effetto "mortifero" sulla quotidianità. Per questo l'escatologia della vita eterna è decisamente liberatoria, poiché conduce a superare il trauma della morte altrui proiettato nella propria vita. D'altra parte anch'io credo che esista un paradosso, paradosso che si individua tra il desiderio di persistenza dell'homo tecnicus e il fallimento dello stesso ideale di persistenza, quello ardentemente coltivato dalla nostra cultura contemporanea. Il fallimento è endemico (tutti lo sanno che, nella modalità mondana, non si vive in eterno) ma l'interruzione della vitalità nemmeno come concetto astratto e impalpabile è accettabile dalla nostra cultura. Ecco allora il paradosso della "lotta" per la vita contro la morte (espressione questa comunemente usata quando vengono diagnosticate le più gravi malattie degenerative, quelle che probabilmente condurranno alla morte).
Ecco allora che tu tratteggi in modo illuminante uno dei controsensi fatali della pratica medica contemporanea nelle modalità di cura che vengono offerte alla fine della vita. La medicina prende in carico questa cura in tutto e per tutto senza lasciare nulla di intentato. Alle tue lucide e taglienti osservazioni io aggiungo il mio notare che la pratica medica, fin dal suo procedere teorico, è tutta impostata sull'ideale leonardiano di uomo funzionalmente e organicamente perfetto. Da questo punto di vista, la medicina concepisce ogni discostarsi da quest'ideale come disfunzione ed errore che si propone di correggere con la chimica e la tecnica, attraverso la chirurgia e la farmacologia.
La medicina attuale, infatti, ha smesso di servire principalmente ad alleviare le sofferenze umane proponendosi il ben più alto e complesso scopo di prevenirle, facendo in modo che queste non si presentino neanche. Su questa strada sono stati raggiunti grandi traguardi e, contemporaneamente, si è andati sempre più verso l'artificio e la medicalizzazione della vita stessa nelle sue fasi salienti come la nascita e la morte. A ben vedere, l'intero corso della vita umana è caratterizzato dall'intervento della pratica medica nella sua attuale forma di terapia preventiva. All'estremo, infatti, si arriva oggi ad amputare preventivamente, per presunta predisposizione genetica a malattie future, organi e componenti vitali del corpo umano.
La medicina contemporanea ha assorbito il concetto di rifiuto e paura della morte al punto tale da averla esclusa a-priori dai suoi canoni e non si ferma più difronte a nulla. E' un bene o un male? Ai posteri l'ardua sentenza.
Anch'io credo con te che la ribellione contra naturam nei confronti della morte sia un atteggiamento esistenziale in atto. La mia obiezione, d'altra parte, è che tale ribellione si rivolge ad un concetto di morte artificiale e fittizio, quello di fine della vita nella vita stessa. In termini medici si tratta della cessazione delle funzioni vitali dovuta all'alterazione irreversibile della funzionalità dell'organo. Ecco allora che la medicina si concentra a ripristinare, attraverso la tecnica, l'ipotetica perfezione dell'organismo umano "rimettendo a posto" attraverso la chirurgia quanto si è sfasato e correggendo attraverso la chimica quanto potrebbe squilibrarsi o si è squilibrato. Nessun dubbio sul fatto che una disfunzione o uno squilibrio potrebbero essere funzionali alla fisiologia umana, nessuna perplessità sul fatto che quest'equilibrio possa essere a volte inintellegibile alla lungimiranza umana. Lo studio e la ricerca scientifica, basandosi su prove provate, toglie questo dubbio. Quest'atteggiamento positivista prevede la perfezione dell'organo discernibile alla scienza e si propone di instaurarla o ripristinarla in ogni caso possibile. Con ciò la morte come fine del vivente può essere, se non sconfitta, almeno rimandata e la sua portata terrificante e spettrale dominata dal potere della tecnica.
La tecnica medica fallisce, però, nello scopo che si propone poiché ognuno di noi è, proprio oggi e nonostante i grandi traguardi ottenuti dalla scienza medica, costretto a fare i conti con l'ipotesi della morte prematura a seguito di grandi sofferenze a causa di malattie degenerative irreversibili su cui la medicina ha scarso discernimento e nei confronti delle quali può davvero ben poco allo stato attuale. Questo basta a dimostrare che i capisaldi della medicina contemporanea hanno un grave punto debole che, a causa forse di offuscanti logiche economiche, non riesce a chiarire a se stessa.
La mia intuizione è che il concetto di "lotta" contro il male, che viene usato quando ci si rivolge alle malattie incurabili come il cancro (sia in termini metaforici che in termini terapeutici, per l'aggressività di alcune cure come le chemioterapie) è un'estensione del rifiuto della morte di cui tu parli, ovvero di questa ribellione contra naturam alla vita stessa nella sua manifestazione naturale. La prometeica lotta intrapresa contro la disfunzione dell'organo concede allora vittorie talmente parziali che, nel corso della "lotta", l'aggressività della malattia, associata all'aggressività della terapia portino a far soccombere l'organismo tutto. Succede, allora, che si dica "il tumore era stato arginato ma il paziente è deceduto a causa di una banale infezione, poiché era troppo debole". Ecco il paradosso: la medicina vince la sua lotta teorica contro il male anche se l'uomo soccombe a questa lotta intrapresa contro se stesso. Che idea di uomo ha introiettato questa medicina? Da dove eredita un concetto di uomo tanto parziale, fittizio e autocontraddittorio, tanto fisso e stereotipato?
Introiettando quest'errore di concetto, la medicina si è riservata l'assurdo compito di fare da giustiziera, applicando una procedura che, nonostante i fallimenti, persegue inesorabilmente il suo compito di "lottare" contro la morte. La morte, da questa prospettiva è il frutto dell'anomalia, della disfunzione dell'organo. Ripristinando l'ideale perfezione dell'organo, la morte può essere sconfitta. Nulla di più logico, nulla di più fallace!
La mia tesi, invece, è che la morte è "altra cosa" rispetto alla vita. Per questo la medicina non riesce, alla fine dei conti, a ridurne il mistero e la portata fatale, per questo il linguaggio comune fatica ad esprimerla, dovendo piuttosto ripiegare su analogie e metafore per parlarne.
Il fatto quindi che "l’oblio del termine morte comporti l’emarginazione della morte dall'orizzonte vitale del quotidiano" è un'evidenza che dimostra, per me, che la morte è un concetto talmente estraneo alla vita che non trova spazio in essa. Eppure abbiamo bisogno di immaginare la nostra morte, il nostro cuore silente il nostro corpo gelato. Abbiamo necessità di immergerci nell'angoscia vitale del morire e come in apnea continuare a vivere un'esistenza più cocente in quanto fatalmente e irriducibilmente tragica. Eppure noi morti non lo siamo, né ci sarà mai dato di esperire la nostra morte. Il pensiero della morte è, in fondo, un'astrazione. Rifiutandolo e vivendo "in lotta" contro la morte cerchiamo di eternare la nostra immagine mortale nella nostra e nell'altrui immaginazione.
Questo concetto fallace e fittizio di morte è davvero intramontabile.

Commenti

Post popolari in questo blog

"Non possiamo pretendere di risolvere i problemi pensando allo stesso modo di quando li abbiamo creati" A. E.

Preoccupazione e meraviglia