La solitudine

"Degli uomini, -disse il Piccolo Principe- coltivano cinquemila rose nello stesso giardino... e non trovano quello che cercano... E tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua... Ma gli occhi sono ciechi. Bisogna cercare col cuore". Il Piccolo Principe, Saint-Exupéry, 1943.
Dedicato a L. A.

A questo punto non posso non cercare di analizzare la solitudine poiché questo "atteggiamento esistenziale" (chiamiamolo così) ha molto a che fare con la morte e con la paura della morte.
Questo blog, infatti, è un mio percorso interiore alla ricerca della radice emotiva e razionale della paura delle paure, quella della morte. Se l'intuito mi dice che questa paura è irrazionale e immotivata, resta comunque ineludibile e può essere un potente freno e condizionamento della libertà intellettuale e spirituale di ognuno di noi. La solitudine ha a che fare con la morte perché entrambi questi sentimenti sono sostenuti dall'idea di una perdita e di una mancanza. La morte è intesa come perdita della vita, la solitudine è sentita come perdita della dimensione relazionale e intersoggettiva, come mancanza di valore e considerazione sociale, amicale e affettiva.
Siamo in molti che, pur avendo la compagnia di altre persone, ci sentiamo soli. La relazione con altri simili non basta, quindi, a lenire completamente il nostro senso di solitudine, poiché esso è in qualche modo connaturato all'uomo.
Può succedere che la solitudine arrivi perché si coltivano le idee romantiche dell'amore, della vera e profonda amicizia o della famiglia, che sono viste come condizioni ineludibili al raggiungimento della felicità. La solitudine, allora, diviene il coefficente esistenziale che mette in luce il fallimento del tentativo di realizzare tali ideali.
La solitudine è considerata così penosa da essere imposta come punizione esemplare (come nel caso delle segregazioni in celle d’isolamento, o più in generale, dell'esclusione dal mondo dell'incarcerazione). In questi casi l’individuo non può sfuggirle. Altrettanto ineluttabile sembra essere quando deriva da privazioni o limitazioni sensoriali, dovute ad esempio a certe malattie (come cecità o sordità o alcune forme di handicap).
Eppure, persone "costrette" alla solitudine non necessariamente soffrono la solitudine, poiché in condizioni di solitudine imposta da circostanze "esterne" si può comunque trovare l'occasione di esprimere il proprio io in modo fruttuoso. Non sono rari i casi in cui l'isolamento fisico della prigionia ha concesso di produrre grandi opere d'arte (come ad esempio per Dostoevskij, che trovò in sé risorse spirituali che gli permisero di sopportare la prigionia scrivendo memorabili opere). Un altro esempio illustre è Beethoven, la cui sordità lo portò ad isolarsi parzialmente dal mondo. E chissà che questa solitudine "imposta" non abbia contribuito a sviluppare in lui una grande sensibilità interiore, tanto che le sue opere più belle hanno visto la luce nel silenzio.
Vi sono poi solitudini volute. Quelle del creativo, dell’asceta, dell'eremita o di chi, nella quotidianità, sente il bisogno di ricercare un momento suo, per recuperare le energie disperse, per ritrovare quella parte soffocata dall’affanno della vita. Esiste la solitudine di chi si lascia assorbire dagli impegni lavorativi o da hobby o da altre attività tanto da essere completamente preso da essi, senza potersi ritagliare spazi di condivisione e di amicalità. Queste forme di ricerca della solitudine come la fuga dal mondo verso situazioni che implicano isolamento psicologico sono spesso legate alla difficoltà di gestire situazioni intersoggettive che risultano pesanti da sostenere. Freddezza e distacco, indifferenza e passività sono stumenti di difesa volti a mascherare la debolezza e la vulnerabilità verso gli altri. In casi come questi la fuga dalla dimensione relazionale è una via d'uscita all'incapacità di reggere le emozioni di una relazione umana alla pari.
Vi sono ancora solitudini come mode o tendenze suggerite o imposte dai costumi sociali. Ecco allora l'invito a diventare individui speciali e originali che arriva dai mass-media o dagli spot pubblicitari. Potremmo chiamare questa una "tendenza all’individualismo di massa", che si configura come un messaggio paradossale suggerendo che per distinguersi dagli altri, per essere "eccezionali", è necessario adottare comportamenti ed appropriarsi di oggetti uguali per tutti. Questi messaggi spesso non sono compresi, specie se non si è sviluppato uno spirito critico sufficiente ad evidenzianrne la natura contraddittoria. Così possono creare dei bisogni soddisfacibili attraverso dei requisiti "esterni" (come il denaro, il raggiungimento una determinata posizione sociale o l'acquisizione di una precisa immagine e forma fisica) necessari per uniformarsi a standard che possono essere lontani dalle reali possibilità dell'individuo. Questi messaggi possono essere problematici in quanto, essendo strumentali e privi di fondamento logico, possono alimentare un vuoto desiderio di fuga e la ricerca di un rifugio che, visto come un luogo d’opposizione all’esterno, limita la crescita e lo sviluppo dell’autonomia individuale.
C'è poi la nuova forma di solitudine, quella che si configura attraverso l'uso massiccio dei nuovi strumenti di comunicazione via internet, che permette in poco tempo di mettersi in contatto con molte persone in qualsiasi parte del mondo. L'uso di queste tecnologie, non solo concede ai più timidi di evitare il vis-à-vis ma, attraverso chat e social network, evita anche lo scambio verbale della comunicazione telefonica. Queste nuove forme di comunicazione creano a volte delle relazioni interpersonali monche e incomplete che spesso sono una sorta di tiepido palliativo alla ricerca di compagnia. A favore della vastità e varietà degli scambi relazionali ed emotivi si rinuncia al contatto diretto, quello dello sguardo degli occhi, delle parole della bocca, dell'alito della voce. Lo sguardo, la voce, la parola parlata sono un banco di prova per testare se stessi e per sperimentare la propria emotività; mancando il vis-à-vis manca la reale esperienza della meravigliosa complessità dei rapporti interpersonali.
Non credo, comunque, che si debbano demonizzare mass-media e nuovi mezzi di comunicazione poiché il più delle volte non è lo strumento ad essere corrotto, ma l'uso che ne viene fatto. Nonostante quelli elencati siano senza dubbio dei fattori predisponenti, non credo che la solitudine abbia all'esterno dell'uomo o della donna che la soffrono le sue principali cause determinati. Per chiarire questo è intanto è necessario distinguere due generi diversi di solitudine.

"Il vostro cattivo amore per voi stessi fa della vostra solitudine una prigione" (F. Nietzsche, Also Sprach Zarathustra).

Il concetto di solitudine è spesso il ricettacolo di valenze negative. Questo già nella tradizione biblica della Genesi. Il Signore Dio disse: "Non è bene che l’uomo sia solo" -Gen 2,18-; senza addentrarmi nell'esegesi bibilica noto solo che da questa frase emerge che alla solitudine Dio deve porre rimedio perché non adatta alla condizione umana. In seconda battuta Adamo ed Eva subiscono la punizione per la loro arroganza con l'essere separati dalla condizione originaria della creazione. L'allontanamento dal bene della creazione è punito con il dolore della perdita, della separazione. Questa pena originaria, come la solitudine, è una sorta di fardello che ci si porta dietro come una seconda pelle, un'immagine faticosa e pesante di sé con cui è inevitabile fare i conti. A quest'immagine l’uomo moderno contrappone un mondo di relazioni, immagini ed azioni. Nel tentativo di placare questa sensazione ci si procurano le sofferenze e le gioie quotidiane e per fare ciò si utilizzano tutti gli strumenti disponibili, quelli che la società e la cultura mettono a disposizione.
Eppure, la solitudine può essere un risorsa. La solitudine è la strada che ebbero davanti a sé i primi uomini dopo la cacciata dall'Eden, percorsa conquistando quell'individualità che diede seguito al genere umano. Su questa strada, elaborando l'abbandono, Adamo ed Eva conobbero la paura della morte e, con essa, i limiti specifici della condizione umana.
Esiste dunque un genere di solitudine che, avviando un percorso che evoca esperienze e sofferenze vissute, porta a metabolizzarle mettendosi in gioco intimamente e facendo i conti con il proprio vuoto interiore, con quel buco nero che ha a che fare con la paura della morte e dell’abbandono.
Indubbiamente star soli non è da tutti, ma il saper star soli rappresenta una preziosa risorsa, permettendo di entrare in contatto con i sentimenti più intimi, di riorganizzare le idee e, se necessario, di mutare atteggiamento evolvendo verso il meglio. Per questo motivo, se metabolizzato e rielaborato, persino l’isolamento forzato può rappresentare un incentivo alla crescita individuale a all’immaginazione creativa. In questo senso può essere scorretto attribuire a fattori "esterni" al libero arbitrio tutta la responsabilità della nocività e dell'alienazione che questi possono contribuire a creare.
Così, pur essendo l'uomo essenzialmente un animale sociale, io credo che possa acquisire la dimensione comunitaria solo imparando a star da sè con sé, nella ricerca del giusto equilibrio tra il saper stare solo e lo stare assieme agli altri.

Commenti

Post popolari in questo blog

"Non possiamo pretendere di risolvere i problemi pensando allo stesso modo di quando li abbiamo creati" A. E.

Preoccupazione e meraviglia