La morte è la fine di tutto?




Eppure, nonostante tutto quello che ho fino ad ora scritto, è indubbio e inequivocabile il fatto che la vita abbia fine. Questo pensiero, questa consapevolezza risulta amara e dolorosa, specie per chi sente che questa fine è vicina, pur non essendo pronto a quella fine. Chi può dirsi pronto a morire? Chi può dire che il suo progetto di vita è definitivamente compiuto, e quindi può attendere serenamente alla sua fine? Ritorna un'idea di cui ho già scritto, quella per cui la morte è estranea alla vita, quasi che i due concetti fossero contraddittori. Come posso pensare di non vedere più, mai più i miei figli, il mio partner, tutte le persone che a me sono più care e le cose che alimento e coltivo ogni santo giorno? Come posso accettare che tutto quanto costruisco con impegno e fatica dal mattino alla sera improvvisamente scompaia per sempre? Come posso immaginare che per me non vi sia più mattino né sera? Cose più grandi e meravigliose aspettano i giusti dopo la morte - dice la religione - ma sono comunque "altre" cose, cose che non concernono la mia vita di ora. In questo senso, seppure la morte come esperienza non esiste e mai esisterà per il vivente, questa è presente e profondamente radicata nella vita umana come esperienza di dolore e di sofferenza. E allora, ci si potrebbe chiedere, perché evocare questo dolore scrivendo sulla morte? Perché intorno al concetto di morte si cristallizza, a mio parere, molto più di quello che la morte realmente è. La morte rappresenta la sconfitta, la perdita, la fine. Ma è davvero così? Noi siamo davvero vittime della nostra morte?
"Il Cristo morto" di Andrea Mantegna

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