Il lutto tra mancanza e memoria. La prospettiva di chi muore e di chi rimane, la disperazione, la rinascita.




In memoria di Manuel,
dedicato alla sua famiglia
e a chi gli ha voluto bene



E' passato tanto tempo dall'ultimo post... Anni sì, anni. Ora voglio riprendere, è tempo di tornare a scrivere di morte. Paradossale no? Un blog che si intitola "la scrittura come inizio della vita" che parla di morte...
Il mio parlare di morte è in realtà una chiave di lettura, un po' inusuale magari, della vita stessa, nelle sue dinamiche più profonde e radicali.

L'inizio della vita e la sua fine. Due opposti. Sulla linea del tempo, infatti, si collocano esattamente alle estremità. Prima si nasce e poi si muore. Non c'è ambiguità.

Ma possiamo vederla anche diversamente, come un cerchio che si chiude tornando su di sé, come se fossero collegati, come se l'inizio e la fine fossero due passaggi che ci ricongiungono a noi stessi, che ci riportano ad uno "stato" che prima non c'era e che poi, ugualmente, non c'è. Ma qual'è questo stato? Non è vita vissuta, poiché essa manca prima della nascita come anche dopo la morte. Prima di nascere non avevamo nessuno stato e dopo morti acquisiamo una nuova condizione, quella di defunti, vivendo ancora nelle cose e nelle persone che abbiamo lasciato, come anche negli ambienti e nei ricordi che ci hanno ospitato.
La permanenza nel ricordo dei defunti è una vera e propria presenza, forte a volte tanto quanto quella in carne e ossa.

Questa presenza è viva e attiva irradiando cose e persone, dà forma e sostanza all'esistenza di chi quella vita interrotta o finita la porta con sé.
La morte come memoria e ricordo, allora, è anch'essa una forma di vita. Certo, non abbiamo verità "scientifiche" in proposito. Nessuna osservazione oggettiva potrà mai confermarci che l'anima sopravvive al corpo e che quindi quella presenza sia effettivamente reale. Il nostro sguardo disincantato e ormai completamente secolarizzato ci porta a pensare a delle "pie illusioni", a suggestioni che ci creiamo apposta per lenire le ferite del nostro povero cuore spezzato e dolorante a causa dell'assenza, della mancanza.

Tutto sarà diverso e nuovo, nulla sarà più come prima. La perdita infatti crea un'interruzione, una rottura e prevede un cambiamento radicale. Rielaborare questa mancanza è un lavoro lungo e complesso, il più delle volte mai veramente compiuto. Gli psicologi chiamano "elaborazione del lutto", il percorso attraverso il quale si colma il senso di vuoto con piccoli gesti quotidiani, con pensieri e suggestioni ricorrenti in cui l'assenza viene riempita dalla commemorazione e dal ricordo, per ricreare la presenza in altro modo.

Stralci di vita vissuta, di frasi dette e ascoltate, di esperienze conservate nella memoria e nelle cose rimaste intorno cospargono l'esistenza, donandole nuovo senso e valore. Il passato si proietta verso il presente e il presente si collega al passato, formando il cerchio della commemorazione.
Ogni lutto, per quanto possa essere atteso e previsto, è inaspettato. La morte è sempre brusca e repentina e comporta un'interruzione, una frattura della dimensione temporale. Ogni lutto, per chi lo vive, è una sorta di immobilizzazione del trascorrere dei giorni, delle ore, dei minuti.


C'è sempre qualche frase che si sarebbe voluto dire, qualche gesto che si sarebbe dovuto fare, qualcosa che è mancato e che era necessario, financo indispensabile, e poi pare irreparabilmente perduto.
Il lutto è uno strappo, una rottura che insiste sulla quotidianità, sulla sua progettualità, sull'andare avanti dell'ordine della vita. Il tempo si ferma a quell'istante, contenuto in quel minuto, appartenete a quel giorno che, immobilizzato dalla memoria, è la fine di qualcosa che non tornerà più.

Ogni fine, però, include un nuovo inizio. Come la vita che nasce e prima non c'era, e non sapevamo nulla di essa, così quella che si interrompe ritorna nella dimensione atemporale di cui nulla è dato di sapere, ma molto possiamo sentire ed intuire.

Per questo viene in mente che ci sarà un momento, nel corso della vita, in cui questa ricerca ricongiungimento si interromperà e l'assenza si trasformerà in presenza completa e attiva. L'esistenza stessa, allora, è vissuta alla luce di questo momento, come suo scopo e fine. E nel corso del tempo, la commemorazione si trasforma in stile di vita. Quando è chiaro che la morte non è un male per chi è andato, si riprende a vivere e il dolore trova uno spazio, una casella quotidiana che conferisce senso e valore ad ogni esperienza da quel punto in poi. La vita, allora, assume una forza, una fecondità interiore nuova ed originale che prima non aveva, quella di vivere nel nome di chi manca.

Facendo passo indietro, ora, mi chiedo: come viene percepita la morte da chi la vive, prima che essa arrivi? In altre parole, se per chi resta la morte è perdita e commemorazione, cos'è la morte per chi si prepara ad andarle incontro?

L'osservazione di come si considera la propria morte, la propria fine, mi porta a pensare che non riusciamo ad avere una sua percezione realistica.
Nemmeno se è vicinissima, se è lì ad aspettare che abbassiamo la guardia, che ci lasciamo andare per prenderci e portarci via con sé. La percezione viva della morte non c'è. La vita è vita. Non ci sono vie di mezzo né mezze morti. C'è un'anima, uno spirito vitale che anima il corpo vivo e che manca definitivamente al corpo morto.
Anche in punto di morte quindi, nella piena consapevolezza che la falce sta per sferrare il colpo di grazia definitivo, finché la vita c'è e non abbandona il corpo, il corpo è vivo e vitale, spesso alla massima potenza.
Non potrò quindi mai descrivere la morte avendone avuto esperienza. Tuttavia vorrei tanto farlo per gettare luce sul "passaggio di stato" che è la fine o il fine della vita. Vorrei fornire un manuale sulla morte, aiutare tutti ad essere pronti a quest'evento fatale e misterioso.

Posso però scrivere di mortalità, di questa strana condizione percepita, tra le varie specie animali, solo da quella umana. Il fatto di "essere mortali" porta, almeno in questa epoca e in occidente, a considerare la vita come un bene primario anzi, come IL BENE primario. Porta a credere che il tempo che divide la nascita dalla morte sia un'occasione preziosa e irripetibile per affermarsi e realizzarsi, per trovare uno spazio nel tempo in cui lasciare un segno, una traccia di sé.
Vita e morte, allora, vengono comunemente considerate come due opposti, come due condizioni, cioè, che si escludono vicendevolmente l'una dall'altra.
La vita è tutto e il suo senso è connotato dalla felicità, poiché una vita felice è senza dubbio considerata particolarmente degna di essere vissuta. Il sentimento legato alla morte allora, è in genere cupo e triste, mentre alla vita associamo entusiasmo, voglia di andare avanti, forza ed energie che ci rendono ottimisti e grintosi.
Alla morte non resta allora che sostenere il pesante carico della negatività esistenziale, di tutto ciò che non è vita. La saggezza popolare, infatti, recita:
"a tutto c'è rimedio fuorché alla morte"
Quindi la morte è irrimediabile, non si torna più indietro. Ecco qua che una brutta diagnosi ingaggia immediatamente una lotta, un combattimento contro un male che minaccia il bene primario della vita, e una lotta o si vince o si perde, a seconda di come volge la battaglia.
Nonostante la morte sia irrimediabile, il proverbio però ammonisce:
"finché c'è vita c'è speranza", e anche se siamo messi male, anche se percepiamo che la fine è vicina, la vita e la speranza stanno assieme e l'una non si dà mai senza l'altra.


L'equazione è addirittura inversamente proporzionale: meno vita, più speranza. Cioè, più ci avviciniamo alla percezione della nostra fine, più la speranza riconduce il corpo in una dimensione ulteriore di completa, piena vitalità. Questo in quanto l'idea della morte, per il vivente, è pura astrazione e si muore sempre "da vivi", cioè la vita è l'unica dimensione concepibile.
La mistica ci aiuta a decifrare la saggezza popolare indicandoci che la parola "vita" non è riconducibile esclusivamente all'esistenza terrena. Potrebbe essere utile scomodare Sant'Agostino per dire che la vita, come la morte, sono due atteggiamenti entrambe propri del "vivente".
Si può vivere da morti, ovvero la morte può divenire un atteggiamento esistenziale che irradia il nostro vissuto in tutti quei momenti in cui la vita, per batoste e delusioni varie, non ci sta più particolarmente a cuore. Un fallimento lavorativo, una delusione amorosa, una disgrazia o tutto assieme, questi episodi possono essere vissuti come delle vere e proprie esperienze di morte.
D'altra parte, la morte può essere anche considerata come il compimento di una vita degna di essere stata vissuta. Per Sant'Agostino infatti, la morte non è tanto un evento contingente, quanto più un'esperienza morale. La morte è il peccato, ovvero la deviazione della coscienza umana dalla via spirituale indicata da Dio. Le due prospettive si ricongiungono nella visione fenomenologica, per cui ciò che avviene fuori di noi non è altro che il riflesso della nostra vita interiore.
Una vita segnata da esperienze di peccato, è una vita infelice, e la morte è il suo leitmotif.
Il peccato, nella nostra visione secolarizzata è l'errore, la delusione, la disillusione, il fallimento, l'abbandono delle speranze. Il peccato è sempre legato all'idea della colpa, alla deviazione della retta via della coscienza, creando un'idiosincrasia tra ciò che siamo e ciò che stimiamo dovremmo essere per adempiere ad una visione completa e compiuta di noi stessi.
Il concetto di morte, dunque, va a braccetto con colpa e peccato ed è connotato dall'altro lato della medaglia: il riscatto, il perdono, la rinascita, che sono le vere chances di ogni vita vissuta.
La morte allora è la percezione della fallibilità, dell'imperfezione, dell'inclinazione a disprezzare se stessi e gli altri, è tentazione distruttiva e autodistruttiva.

Ma possiamo aiutarci con le immagini fornite dal mito per spiegare meglio tutto ciò. I miti conservano, infatti, una carica simbolica che ci riporta direttamente alla nocciolo duro della nostra esistenza. Più di ogni altro mito, quello adamitico è radicato nella coscienza e getta luce sulla condizione umana, intesa come percezione che ognuno ha di sé e del mondo fuori di sé.
I nostri progenitori, Adamo ed Eva, furono cacciati dall'Eden per aver peccato mangiando dell'albero del bene e del male. Un comando divino, infatti, imponeva loro: non mangiate di quell'albero!; disubbidendo ad esso persero il dono dell'immortalità. La disubbidienza a Dio, d'altra parte, fornì loro la consapevolezza di ciò che è bene rispetto a ciò che male, e con essa la percezione della loro umanità e fallibilità, della propria mortalità. L'infelicità, che non avevano mai provato nella vita senza tempo vissuta nel Paradiso Terrestre, entrò nella loro esistenza per la prima volta dopo la cacciata. A seguito di ciò acquisirono l'autocoscienza, intesa come occhio esterno che, proiettato verso l'interno, giudica il sé, mettendolo nella posizione di dover adempiere a determinati risultati per essere "buono" e non "malvagio".
La punizione divina allora, inflisse un'eterna ferita alla coscienza degli essere umani, piaga da sanare attraverso gesti ed atti degni dell'originaria natura di creature perfette, simili alla divinità. Dopo la cacciata, i progenitori si accorsero di essere nudi, spogliati non di abiti, che in realtà non avevano mai indossato, ma del privilegio della persistenza, dell'immortalità, dell'immutabilità, dell'incorruttibilità. Una grande perdita, ma anche un grande vantaggio, poiché la nuova condizione, quella umana e carnale, aveva fatto in modo che potessero prendere in mano le redini della propria esistenza. Il dolore, che non avevano mai provato nell'Eden, fornì loro la consapevolezza di avere un corpo di carne ed ossa, fragile e perituro. Contemporaneamente essi provarono per la prima volta il piacere e usufruirono dell'opportunità di godere delle esperienze sensoriali. La nuova condizione concesse loro la capacità di discernere il bene dal male, nell'esperienza del piacere e del dolore; questo permise ai progenitori di capire chi fossero, di distinguersi da Dio, di auto-percepirsi uomini e di vivere assolti dalla tutela divina, camminando sulle proprie gambe.


Di lì in poi la compiutezza e la perfezione, condizioni proprie della vita nell'Eden, non saranno più alla loro portata ma essi e noi, loro avi, dobbiamo conquistarcele passo dopo passo, sfuggendo alla condanna della morte vivente e ricercando la vita vera nella sua condizione originaria, che ci vuole immortali e affini a Dio.
Il mito mostra che la morte è percepita nella debolezza, imperfezione, ma è anche consapevolezza delle possibilità umane, in una condizione di equilibrio tra fragilità e forza, essendo stati in origine immortali, oltre che vicini e affini a Dio.
La vita, allora, sta tutta nel percorso di risalita, che è riscatto dalla caduta e liberazione dalle catene della morte vivente, trampolino di lancio verso il dispiegarsi delle ali della vita paradisiaca, che è la dimensione umana agognata del ritorno alla condizione originaria.

Chi è morto ha vissuto tutto questo. Chi è morto ha compiuto il passaggio. Chi è morto è nato alla vita completa e perfetta della condizione originaria. Chi è morto è perfettamente presente a se stesso e già sa quello che noi ancora dobbiamo capire o sentire. Ogni volta che abbandoniamo la dimensione della morte vivente, per affidarci a quella della vitalità pura e completa, possiamo ricongiungerci con la nostra origine, e con chi ne sta fruendo eternamente.

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