fino a dove si può estendere il desiderio di avere un figlio? Riflessioni sulla possibilità della genitorialità.



La storia dell'Occidente è il progressivo impadronirsi delle cose,
cioè il progressivo approfittare della loro disponibilità assoluta
e della loro infinita oscillazione tra l'essere e il niente...
in esso resta pertanto celebrato il trionfo della metafisica

( E. Severino, Techne, Milano 2002, p. 257)




Siamo noi a servirci della tecnica o è la tecnica a servirsi di noi? Quando le enormi possibilità che ci sono regalate, spesso anche a buon mercato, dal mercato globale sono messe sul piatto della bilancia con le conseguenze che queste hanno sulla nostra e altrui salute, sicurezza e serenità la domanda si trasforma in esigenza speculativa.

Il contrasto si coglie in ogni aspetto nelle nostre vite ed è che, se le libertà individuali sono estese come non mai, la reale opportunità di avere, di andare e venire, quella di scegliere e decidere consapevolmente sono imbrigliate in una serie infinita di condizioni che le rendono più apparenti che reali.

La domanda allora si inverte: se ogni possibilità che diventa reale ha un costo, quanto è legittimo il nostro scegliere di avere? Fino a dove è lecito, cioè, lanciare la rete dei desideri? C'è il rischio che questa rete diventi una gabbia dorata in cui le opportunità e i bisogni risolti non sono ciò che ci libera ma, piuttosto, ciò che ci incastra?

Andiamo per gradi.

Molte delle nostre possibilità materiali, vere o ipotetiche che esse siano, sono rese tali dalla tecnica, ovvero dalla manipolazione della natura attraverso la quale cose appena pensabili divengono disponibili e a portata di mano.

Ma cos'è esattamente la tecnica?

Il concetto è ben antico, risalendo al termine greco τέχνη (téchne) che si riferisce alle arti meccaniche, tra le quali sono incluse la medicina e la musica. Tecnica come "fare" attraverso l'arte manuale che possa sopperire all'intrinseca debolezza umana, per Esiodo la τέχνη fu donata dagli dei agli uomini in loro soccorso. Opere e giorni vv 109.


Quello della tecnica -nella sua accezione moderna- fu il piano trionfante del Positivismo: grazie ad essa l'umanità avrebbe potuto progressivamente liberarsi dalla servitù del lavoro, delegando alle macchine lo "scambio organico con la Natura" in cui consiste la civilizzazione.
"Tecnica", dunque, è la strategia per liberarsi dalle incombenze "materiali"; il fine è avere modo e tempo per dedicarsi ad altro, ad occupazioni più nobili e di valore superiore. Attraverso la tecnica dunque, ciò che, nel suo stato naturale è "materiale" e "fisico", viene trasformato in "cosa", in oggetto utilizzabile e disponibile a soddisfare le esigenze di chi l'ha creato. La creazione però è, in questo caso, una manipolazione, un'operazione che trasforma la materia fisica in ciò che può essere conosciuto, dominato e, soprattutto, utilizzato.



Se in principio la tecnica fu considerata come lo stratagemma utile a liberarci dagli affanni della vita pratica e materiale, ciò che sembra essersi perduto è proprio il fine della liberazione da essa concessa, tanto che tutti ci ritroviamo a rincorrere fini contingenti con lo scopo, ancora una volta, di impadronirci di cose che soddisfino infinitamente i nostri bisogni secondari.

Eppure, la tecnica è sempre stata serva dei bisogni primari, delle esigenze, cioè, vitali utili alla nostra sopravvivenza. E che queste siano diventate estremamente estese ed articolate, molteplici e raffinate è spesso considerato sintomo di un accresciuto grado di civilizzazione raggiunto grazie ad essa.


La riproduzione è un'esigenza biologica primaria: che si creino, cioè, le condizioni utili affinché la nostra specie possa permanere su questa terra. La spinta verso la riproduzione è quindi fortissima e il contesto sociale fa in modo che essa sia tanto più forte, quando più alti sono gli ostacoli che si interpongono sulla strada del suo effettivo realizzarsi.

Così, se non c'è nulla di più essenziale che augurarsi che il naturale istinto di procreazione possa essere soddisfatto, il fatto che non sia per tutti possibile allo stesso modo porta a considerare la sua impossibilità come un'esigenza ineliminabile (se non, nel peggiore dei casi, come un difetto sociale da correggere).


In questo senso, la nostra società ha elaborato un concetto di genitorialità che, oltre che desiderio ed impulso, viene concepito come un "progetto" pianificato e realizzato sulla base di una decisione razionale, di un piano prestabilito.

La tecnica emancipa a tal punto dalla natura da rendere possibile che questo progetto sia esteso anche a chi non ne avrebbe naturalmente le possibilità, e si prefigura uno scenario in cui tutti possano esaudire il desiderio di avere un figlio.

E se, tradizionalmente, il progetto parentale è attribuito alla coppia eterosessuale congiunta in famiglia, la famiglia tradizionale deve oggi fare i conti con altre diverse forme di nucleo sociale affettivo. Queste, omologandosi al modello della famiglia tradizionale rivendicano per sé la possibilità di avere figli.

Una certa -imperante- logica della competizione impone, infatti, che a tutti, a parità di condizioni, siano concessi uguali opportunità e diritti. L'uguaglianza, conquista primaria della liberazione dell'uomo dalle catene della natura, associa la coppia omosessuale alla coppia etero.

Ma perché mai, in effetti, un bimbo non dovrebbe avere due genitori dello stesso sesso? Perché mai due genitori maschi o femmine dovrebbero essere peggiori di due genitori eterosessuali? Non c'è ragione razionale per questo tipo di obiezione. E non è questo il punto, oserei dire. Due genitori maschi possono essere genitori amorevoli come, se non più, di due genitori etero.

Tuttavia, a pensarci bene, qualcosa che non va c'è. La prima falla di questo discorso la riscontro nel concetto stesso di "progetto parentale". Poiché, seppure la genitorialità è progettabile, considerare un figlio come frutto di un programma prestabilito è distoglierlo da ciò che esso realmente è, ovvero un'evento di assoluta originalità, una forma soprannaturale di donazione trascendente.

La paternità omosessuale maschile avviene attraverso corpo di due donne -una donatrice di ovulo e una gestante- entrambe donatrici di vita di altri e per altri. Concepire questo tipo di rapporto genitoriale presuppone che la gestazione non instauri un legame unico ed indissolubile tra madre e figlio o addirittura che essa possa essere considerata un mero passaggio per consentire a due padri, di cui uno solo biologico, di divenire tali. Il corpo femminile, così, è dissociato dal suo essere madre e dalla sua funzione naturale di accudimento e di cura, essendo il ruolo delle due donne puramente "fisico" e strumentale.



Può essere considerato dunque questo "nuovo" tipo di forma genitoriale, un progetto d'amore? Certamente, nelle intenzioni iniziali lo è, ma l'intenzione iniziale si disperde, a mio parere, nel tecnicismo delle procedure mediche, dei trasferimenti in provetta da corpo a corpo e infine dal ventre di una donna alle braccia di altri.

E noi donne, per quanto emancipate e libere, non lo siamo abbastanza per "liberarci" della nostra natura di madri. Che siamo madri effettive o potenziali, essere madri per offrire il frutto del proprio grembo ad altri ci snatura dal nostro essere, perché -ci scommetterei- non è possibile donare un figlio con un'adesione completa e piena del cuore.


E questo, nonostante esso sia geneticamente esterno al proprio corpo. Ecco perché il "come", quel di più consentito dalla tecnica è un passo fatale, a mio parere, verso l'alienazione di quella madre "donatrice" di vita per altri dal proprio corpo e dalla propria natura e quest'alienazione coinvolge simbolicamente tutte le madri del mondo.
Perché molte cose le possiamo "fare", ma mai potremmo "fare" un figlio e la natura, che ci spinge alla riproduzione, crea un attaccamento assoluto al frutto del proprio grembo, che esso sia derivato da un rapporto d'amore o d'altro tipo. Ora, la sensazione è che quando la "voglia di vita", e l'esigenza assoluta di compierla, si riversa nella tecnica e nelle possibilità che essa offre si possa cadere in un vortice che può sfuggire di mano.

Si può perdere, in altre parole, il contatto con sé stessi, con i propri desideri profondi che coincidono con l'essenza dell'identità personale. Inoltre, poiché nessuno può realmente stabilire in modo equo fino a dove si può estendere il desiderio di avere un figlio, è estremamente complesso normare efficacemente sulla questione, decidendo i limiti da imporre a questo desiderio.
Perciò, anch'io credo che il limite giuridico sarà in ogni caso fallace, perché parziale limitato e che, come dice Alessandro (Figli di un Dio “artificiale”: esistono limiti al dominio della tecnica?), la risposta debba essere trovata nel cuore.

Ma quel grembo materno fecondato da un gamete estraneo non sarà poi, inevitabilmente, contrastato tra accudimento e abbandono? Quella la madre affittata lo porterà con il sufficiente distacco, senza gioire troppo ad ogni sussulto, senza soffrire troppo ad ogni nausea e malessere? Ciò che sta dentro e che è carne nella sua carne non è suo, non le appartiene. Per alcuni potrebbe sembrare una forma altissima di generosità, per me è lo sprofondare in un'alienazione senza precedenti, che oltre all'anima coinvolge il corpo ed ogni sua funzione vitale.

Resta il fatto che quel bambino che non è ancora nato, e che per natura in una coppia gay maschile non potrebbe mai nascere, quel bambino che è desiderato e progettato è l'emblema della sopravvivenza, il vessillo della possibilità di esistere come stare al mondo. Di qui, la difficoltà estrema nel concepire il limite quando esso è sinonimo di annullamento nell'impossibilità di essere uguali agli altri.
Forse, però, questo voler essere uguali, con gli stessi desideri e possibilità delle altre coppie e con le medesime esigenze è il vero limite e forse, è nell'accettazione del limite come elemento distintivo e caratterizzante che sta la natura delle cose.

La mia sensazione è che è necessario riconsiderare il proprio limite, accettarlo e addirittura amarlo poiché esso può indicare la strada da percorrere.
E le donne, che nascono e muoiono "madri" non dovrebbero essere messe, in nessun caso, nella condizione di dover fare simili scelte.
Questa è la mia idea, anch'essa piena di limiti e mi scuso se potrà ferire la sensibilità di qualcuno.

Commenti

Posta un commento

Post popolari in questo blog

"Non possiamo pretendere di risolvere i problemi pensando allo stesso modo di quando li abbiamo creati" A. E.

Preoccupazione e meraviglia