La morte indicibile

Ed eccomi ancora una volta a parlare di morte, ancora una volta stimolata da Alessandro Pertosa e dal suo articolo: Il tempo della tecnica

Qualche anno fa, a causa una vicenda personale, ho intrapreso l'osservazione del fenomeno "morte". Il mio intento era provare a descrivere ciò che vedo e sento sulla morte in questo blog. Quasi subito mi sono accorta di trovarmi su di un terreno scosceso e le reazioni me lo confermano: alcuni lettori mi invitano ad affrontare argomenti meno cupi (dunque certamente più interessanti), chi è in confidenza mi confessa che il mio parlare di morte nel blog lo rattrista, che dovrei trattare questioni più allegre per essere gradita al lettore. Eppure la morte, per me, non è un argomento triste. Parlarne, al contrario, è un modo per esorcizzarla depotenziando il contenuto mitico che l'ammanta di un velo funesto.


Le intenzioni però, specie in questo caso, non bastano. La parola "morte", infatti, ha un contenuto performativo piuttosto forte. A sentir parlare di morte, cioé, la nostra mente si performa ad essa, ovvero si immedesima nello stato di morte vissuto per trasposizione sul corpo morto dell'altro, quando è capitato di vedere la morte dal vero. Quell'esperienza ha aperto una breccia nel nostro cuore poiché è stata la conferma che la morte, di cui fino ad allora si era sentito solo parlare, esiste e che davvero tocca a tutti, anche se non si sa ancora quando e come.
Evocare la morte risveglia quel ricordo fino a renderla reale e "viva" alla nostra immaginazione.

Al pensiero della morte sono spesso associati sentimenti di disagio e di angoscia, quindi meglio evitare di parlarne e se il divieto è violato corna e cornetti sono lì pronti ad esorcizzare il male che potrebbe materializzarsi da tale evocazione. Tale disagio è del tutto naturale poiché deriva dal nostro istinto di sopravvivenza che ci porta a coltivare la vita in primo luogo e essenzialmente rifuggendo tutto ciò che la contraddice.

Io stessa sento di star trasgredendo una legge non scritta in questo momento, regola che impone di allontanare la morte dalla verbalizzazione e dal pensiero, poiché questa "sporca" lo spirito vitale che cavalchiamo tra fatiche e e difficoltà quotidiane.

Inoltre -come ampiamente argomentato in precedenza- la morte non è del vivente, né il vivente ha la possibilità di esperirla in modo reale e attivo. Come ogni argomento "irrele", il discorso sulla morte è spesso campato in aria, fumoso e retorico e ha presa quando, vivendo uno stato di disagio e difficoltà psicologica, si è particolarmente vulnerabili e facilmente influenzati da pensieri negativi e tristi.

Il negativo, infatti, è piuttosto nel nostro di interpretare le cose che nelle cose stesse. Per questo è necessario parlare di morte, rompere il suo tabù, sciogliere il legame tra morte propria e morte altrui. Questo, certo, non è sufficiente a placare il dolore della perdita, il senso di solitudine che questa procura ed ecco che gesti e pensieri, assieme alle parole sono tutti volti al nascondimento della morte, al far come se essa non dovesse mai aver luogo.

Poiché in genere al linguaggio si affidano esperienze vissute, parlare di morte comporta che lo si faccia con analogie eufemistiche e metafore. La morte, infatti, non rientra nella sfera del conscio e dobbiamo superare il tabù sociale, radicato a sua volta nel buco linguistico, per poterla esprimere in parole. Morte come "passaggio a miglior vita" o come "sonno eterno", l'immaginazione ci viene incontro a smorzare l'idea nefasta che la morte altrui proietta sulla nostra. Molto comune è proprio l'analogia del sonno, per cui la morte sarebbe il prolungamento senza scadenza dello stato di pace incosciente che si vive nello stato assopito del dormire. Al pensiero della morte, dunque, sono anche associate le condizioni di riposo come termine delle fatiche mondane.


Platone, nell'Apologia di Socrate mette in bocca a Socrate che la morte "un sonno senza sogni", dunque essa non è nulla di male e può essere accettata di buon grado. "Io chiamo un beneficio la morte poiché tutto il tempo, se lo si considera così, non è che una sola notte".
In questo senso, la morte può essere vista come liberazione, cessazione degli affanni, separazione dalla "pesantezza" corporea e materiale. Non essendo un'esperienza vissuta, la morte è naturamente collegata al soprannaturale e la sua interpretazione è considerata appannaggio della mistica e della religione.


Tuttavia, per quanto antica e diffusa l'analogia morte-sonno, l'dea del risveglio vi è sempre compresa. Che sia questo una resurrezione, una reincarnazione o permanenza in una condizione soprannaturale incorporea, l'idea di fine terminale e definitiva pare essere piuttosto avulsa al nostro modo di pensare e verbalizzare la morte.

Inoltre, a ben vedere, c'è morte e morte. C'è quella che arriva in una fase naturalmente vicina alla "fine" della vita, quando morte è naturale spegnimento delle funzioni vitali e cessazione delle fatiche mondane. Ma c'è anche la morte che coglie prematuramente e inaspettatamente, e questa sì sembra particolarmente difficile da accettare e digerire. La proiezione dell'altrui morte su di sé comporta quindi la frustrante incognita della contingenza fattuale in cui essa potrebbe avvenire con la relativa difficoltà di concepire la morte come sfortunato accidente e di conseguenza "scacco matto" alla vita.

Morte come stato perenne di pace e di riposo, morte come perdita della possibilità di esperire ulteriormente la vita, il sentire la morte oscilla tra i due estremi trovando difficilmente un luogo sicuro in cui sostare.
Certo è che la morte, per l'uomo occidentale contemporaneo è un concetto associabile a quello di scacco, di sconfitta, di fallimento. Questo per una serie di motivi tra cui il fatto che ognuno di noi ha introiettato in sé un'auto-interpretazione di essere quasi perfetto, ovvero infinitamente tendente alla perfezione e tale condizione insegue e ricerca. L'interpretazione comune del mito di Adamo è emblematica in questo, poiché la morte è considerata conseguenza di una caduta, del peccato come trasgressione del patto originario tra uomo e Dio. Da ciò consegue lo stato mortale, eternamente imperfetto.
La morte quindi è l'estrema punizione alla superbia umana, marchio che sancisce la fallacia dello stato di permanenza su questa terra. La mitologia biblica, quindi, carica di una valenza transitoria lo stato della vita terrena attribuendo a quella ultraterrena il suo fine come possibilità di riabilitazione nel ritorno alla condizione di originaria vicinanza con Dio.

Detto questo verrebbe da chiedersi: cos'è, allora, la morte?
Di certo è più semplice definire quello che la morte non è, poiché essa non è molte cose. In primo luogo non è vita. In secondo luogo non è normalità. Tutti noi infatti, quando entriamo nella dimensione della morte come quella dei funerali e delle commemorazione dei defunti ci caliamo in una situazione quasi irreale e iniziamo a dire che il caro estinto è ancora perché vive in noi, nei nostri cuori e nei nostri ricordi, quindi che in realtà non è affatto morto. E questo è pur vero, se non fosse che quella dimensione è misteriosamente invisibile ai nostri occhi. E in quel posto così oscuro non ce lo possiamo lasciare, per forza lo dobbiamo ricollocare in una sfera temporale che ci pare l'unica possibile ovvero la presenza, l'attualità, la vita.

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